Welcome to Tuttologi's Academy!

venerdì 29 febbraio 2008

INCUBO (4 luglio 1999)

Il corpo soffre la febbre e la sete
Il sogno ti raggiunge da questa stanza
In solitudine piccola prigione.

Pago il fio della mia ricerca
Che ora appare sciocca e vana
E ne conosco il prezzo la lontananza.

Ho bisogno di te e della tua voce
Del tuo semplice coraggio
Ti amo e non potrò dirtelo stasera.

Spero nei fumi della febbre
Che da sogno si fa incubo
Di leggere la fatidica scritta “in rete”
Sul display del mio telefono cellulare
Ma il miracolo tecnologico non avviene
Il desiderio arde come la malattia
Perché vorrei stare con te.

Il tempo non corre, passeggia
Sul mio corpo e lo martorizza.

Ti amo però e lo sto scrivendo!
Sogno quando leggerai queste righe
Ed io le stesse delle lacrime sulle guance.

Giuseppe MARCHI

domenica 17 febbraio 2008

DA BAMBINO (Settembre 2000)

Da bambino ero affascinato da curiosi lampadari che ornavano i portici della piazza del mio quartiere. Roma è una città strana. Anzi esistono più città. La mia si chiamava e si chiama tuttora col nome di un santo piemontese. Don Bosco. I salesiani gestiscono l’oratorio, la scuola e la chiesa. Una chiesa costruita negli anni ‘50. L’architetto pensava a San Pietro ma vedeva l’EUR. Due braccia di portici come quelli del Brunelleschi ma non più ellittici, quadri. Come se il futuro rappresenti la quadratura della sfera. Per se stessa e per gli antichi perfetta. Per noi moderni troppo rotonda. Colonne a parallelepipedo. Finestre piccole e quadrate. Troppi occhi ciechi sull’abbandonato giardino di ghiaia. Una fontana neanche al centro, piena di carte e rifiuti. Sul bianco del granito una scritta nera. “ La nato non è un fiore”.
Non so dire se oggi quei lampioni ci siano ancora. Dalla finestra del primo piano che ospitava il coiffeur per signore dove si acconciava i capelli mia madre, guardavo l'asta lignea che reggeva una sorta di esaedro da cui scaturiva la luce. Avevo otto anni. Troppo piccolo per restare solo a casa, troppo grande per starmene lì buono a giocare, mentre le signore parlavano, parlavano. Dino era il parrucchiere. Mi piaceva, avrà avuto qualche anno meno di mia madre, giocava col nome, io per tutti ero Pino.
Adesso ha attraversato l’oceano e accompagna turisti a Santo Domingo.
Dal centro del mondo alla periferia dei nostri sogni.
Era così vicino che sembrava potessi toccarlo, solo fossi stato più grande. Qualche centimetro più alto. Era inutile protendere le braccia poiché risultavano sempre troppo corte per afferrare il lampadario.
E poi perché prenderlo? Forse per usarlo come uno strano trapezio da circo, per dondolarmi nell'aria del sottopotico.
Lo escludo, perché ho sempre sofferto delle altitudini ! Ancora adesso, i ponti guardando giù in basso, mi fanno star male. Ma un male atipico, che fa girare le budella, che da nausea, ma è controllabile, basta allontanarsi un poco dalla balaustra. E dà l'ebbrezza della sofferenza, della caducità.
Il sapore sconosciuto del suicidio. Parola magica e tabù. Chi ha saputo superare la barriera estrema dell'amor proprio. “Salvata da un pino" recitava il giornale della Sera. Mai viste conifere in periferia di Roma. Forse per il distratto giornalista di cronaca nera era meglio che la folle donna morisse e invece si ruppe solo le ossa principali, meschina! Trattenuta nel volo a cadere da un povero oleandro mezzo piegato. Eppure non erano bastati sei piani per mandare in frantumi quel corpo. Ma chi cura quell'anima fratturata ? Senza via di scampo...o scelta lucida. Non ho avuto possibilità di chiedergli la cosa più importante, la domanda che il frettoloso giornalista botanico non si è posta: dove stavi andando, volando o cadendo signora cinquantenne di un condominio popolare del mio quartiere-città?
Noi, che stiamo dall'altra parte a guardare attoniti, non sappiamo nemmeno immaginare il vuoto dentro e fuori. In ogni posto del mondo, c'è la morte. Lo so da quando ero bambino e gioivo silenzioso e incauto dietro qualche funerale di parenti. Poi l'uomo è maturato e quel cinismo innocente è diventato angoscia, tutte le volte ed ogni volta ancora. Quando la morte è passata, non so se soddisfatta del suo lavoro, ingrato. Chi prima e chi dopo. E noi ad insultare l'intelligenza e la vita stessa, col pianto. Ovunque ho visto la morte. Quegli occhi neri come buchi vuoti sfiorarmi o prendermi decisamente la mano senza vedermi.
Una stretta rapida e calda. E poi mi è rimasto il tiepido ricordo dell'inesistente. E noi ciechi a non vedere la vita, perché è questa la vertigine invisibile, l'unica giustificazione alla morte. La vita stessa che è necessaria, tanto veloce da non sentirne i passi, come un viaggio da solo, senza o con ritorno.
Adesso sto seduto su un treno e si fa notte. Non sono più bambino. Seguo ancora un attimo i fili paralleli dell'elettricità e il leggero nistagmo rappresenta un paesaggio sfocato, che non può appartenermi, visto nella velocità.
Il silenzio si impadronisce dei miei sensi, in mezzo a tanta gente. Qualcuno dorme e aspetta di arrivare , quell’altro per fretta parla di niente allo sconosciuto al suo fianco.
Solo un brusio di fondo del respiro, un mondo intero dalle dimensioni impossibili. Questo tacere è il preludio al suono magico della preveggenza. Così si allontana la vertigine di certi ricordi imbarazzanti, di certi cedimenti alla sconfitta. Non alla morte sorella, perché pur essendo ottimista, ammetto di essermi alla fine arreso alla vita.
Da bambino non ce l'ho fatta ad arrampicarmi a quel lampadario e volare. Sono rimasto coi piedi nelle scarpe, davanti al davanzale. La finestra socchiusa e lontano il via-vai delle strade della metropoli. La capitale del mondo. Così lontana eppure raggiungibile un tiepido giorno di maggio , prendendo un treno come questo. Siccome c'era troppo da sognare, da scrivere e da vivere.
Giuseppe Marchi

lunedì 11 febbraio 2008

DIARIO DAL KOSOVO II 30 Giugno 1999

Alla finestra dell’Albania
Stanno milioni di bambini piccoli e sporchi
A salutare i cingolati dei vincitori
Come nei ricordi dei padri e delle madri
Come in certi vecchi e nuovi films
Le manine alzate le vocine acute
Gridate con una rabbia non fanciullesca
“italiani, ciocolata”
un po’ come gli americani mi sento
cinquant’anni dopo le stesse case bruciate
le stesse donne ai bordi delle strade
delle vie di sabbia e sassi
i negozi devastati i tetti sfondati.

Il dopoguerra coi carretti appena in piedi
A portare qualche frutto qualche verdura
Ma i visi della gente inspiegabilmente felici
Docile semplice apparenza
Nei dopoguerra!

Giuseppe MARCHI

Fantasmi... e altri racconti

Statistiche