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venerdì 7 novembre 2008

DA PADRE A FIGLIO

Ti insegnerò la pioggia quando viene

A Novembre lugubre sui muri grigi

Ti insegnerò il ricordo che sussurra

All’animo triste e gli reca conforto


Il sole dietro i palazzi farsi basso e gigante

Il correre veloce delle ombre dietro i giorni

E gli attimi terni dell’amore nostro


Ti insegnerò le ore dell’orologio appeso

Al muro della cucina e il suo datario perpetuo

Ti insegnerò quel vetro infranto dall’abbandono

Una luce accesa per sempre


La via percorsa per chilometri con lo stesso passo

Le belle bandiere e il poco vento a farle vela

E lo spavento in fondo alla strada finita


Ti insegnerò le parole di una canzone

Quando viene il sole a farci ballare

Ti insegnerò che non basta vivere

Dobbiamo amare e cercare


Il sapore salmastro del mare chiuso dentro

La mano di sabbia e domani qualcuno sarà lì

Ad aspettarti per riprendere il viaggio


Giuseppe MARCHI









domenica 12 ottobre 2008

Tra le braccia del padre (Bricherasio 28/10/2000)

Se noi sapessimo spendere

Quel grande silenzio

Le chiome spumeggianti del mare

Iride profondo del viaggio

Aldiquà della vita


Se noi sapessimo parlare

La voce urlante del bisogno

Il segreto onirico dei sentimenti

Timpano solleticato che si fa

Grancassa e un sonno leggero

Tra le braccia del padre


Se noi sapessimo vivere

Giuseppe MARCHI

sabato 13 settembre 2008

Dubbio amletico...

Siamo quelli che creano il big bang
nell'accelleratore sotto una montagna svizzera
(o almeno ci provano)
oppure quelli che restano ancora una volta
attoniti a guardare questo incredibile temporale
che batte sui muri e sui vetri
e trasforma la città d'estate di un attimo prima
in questa grigia ombra che sembra notte ?

Giuseppe MARCHI

venerdì 29 agosto 2008

Canto di Sarajevo

Il tram colorato sfida il viale

Che fu dei cecchini

Attraversa rumoroso la strada

Calda di primavera a Sarajevo.

Il giorno duemila significa

Che non c’è più il fucile

Ad aspettare la donna

Uscita a fare la spesa.

Non c’è più neanche quella donna.


Corrono col tram dietro i vetri

I visi di altre donne nel dopoguerra

Il vestito e il trucco nuovo

Il giorno atteso di festa.

Non raccontano al primo venuto

Le loro indicibili sofferenze

Di bambine smarrite e la paura

Di madri di figli partiti spariti

Dalla guerra inghiottiti.


Lungo le vie il popolo della Bosnia vive

Senza chiedersi come sia potuto accadere.

Testimone muto il muro in mille fori

Artistico ghirigoro eco di anni senza silenzio

Ora regna tra le carcasse di auto

Da portar via e i grattacieli

Ricostruiti a fianco degli scheletri

Di cemento è stato dicono

E non possono mentirci.


Sotto i ponti di metallo scorre la vita

In tempesta color amaranto

Il sangue versato prosciugato

È diventato vendetta.

Canta ora il dio delle moschee

Un minareto all’opposto della valle

Risponde e diffonde il pianto

Dell’umanità disgraziata e ci regala

Il desiderio di pace sulla città.


Un contadino ha deposto il fucile

Con la vanga dissoda il campo

Vicino il figlio salta e gioca

Come in ogni luogo del mondo

Il padre ha il viso di rughe profonde

E gli stivali dei cosacchi.

E’ stato un soldato e il canto di Sarajevo

Era per lui l’ululato dei mortai dalle colline

La sua guerra santa contro

La guerra santa degli altri.


I suoi figli adesso correranno su una terra

Che fu degli ottomani e degli asburgo

Qualcuno gliela fece sognare serba

Non sarà di nessuno, solo di chi

Saprà sopravvivere al fratricidio.

I suoi figli lo sa avranno vacche denutrite

L’odio e la vendetta dei figli di altri soldati

Forse non moriranno presto su una mina

Lasciata lì da chissà quale nemico.


I suoi figli avranno montagne e abeti

Inverni gelidi e di nuovo il canto dell’estate

Si diffonderà su Rogatica e Sarajevo

Umiliati, dimenticati avranno vinto lo stesso

Loro bambini che corrono lungo la strada

Gli stessi di Pec o di Mogadiscio

E noi grandi soldati che non sappiamo

Distinguere se serbi o croati o musulmani

Ci fanno abbassare le armi e lo sguardo

Ci illuminano il cuore di uomini lontani da casa.


Quelle voci di bambini

Vengono a dirci in una lingua ignota

Ma così facile da capire

Che il canto di Sarajevo

Non è il silenzio della città vuota

Perché loro non possono morire.


Giuseppe MARCHI

lunedì 18 agosto 2008

Una sola ragione

Abbiamo ucciso per il bene
e non abbiamo avuto dubbi
avremmo di certo osato
senza vedere l'anima almeno
seduto tra le stelle l'uomo
guarda la sua piccola terra
azzurra di cielo coperto di nubi
accapigliate in guerra sempre
e avrebbe ascoltato il vento
in uno supporre il domani
una sola ragione ci muove.
E' quella che magnetica spinge
la terra lontana dal sole e poi torna
e la marea va e viene alla luce
della luna che da qui sembra viva
ma è l'illusionista della morte
a farci vedere un'altra possibilità.

Giuseppe Marchi

martedì 22 luglio 2008

Corrispondenze (2000)

Ancora nel cielo ricolmo

Di nubi cerebriformi

Arabeschi dei venti giunti

Con silenziosi sussulti

Dall’altrove invisibile


Cosa vede l’uomo alla finestra

E la sua ombra clonata

Dall’altro lontano emisfero

Balzo di arrugginite lancette

Incompreso tictac corrispondente


Perché lo stesso sguardo cela

L’uguale disegno di pensieri

Arditi oltre le dimensioni comuni

Specchio attraversato dello ierioggi

Fin dentro quelle carni vive

Dolcemente insicuro di esistere


Giuseppe Marchi

domenica 6 luglio 2008

TRACCE (2000)

Sancire l’inizio del millennio
Il nostro abuso sul tempo
L’ineluttabile necessità di vivere
Appoggiati fieramente al confine
Valli e monti di deserto
Sabbia sopra e sotto l’acqua
Sono uomini che vengono da lontano
Nel cielo annunciati da nessuna stella
Al posto degli occhi dardi fiammeggianti
Ora spenti alla fine del viaggio
Tracce di secolo rechiamo loro in dono
Brandelli di carni dal filo spinato strappate
Odore acre di guerra perduta e morte
Dalla periferia della terra e nei visceri suoi.

In fondo a tutti i naufragi nel volo nero dei cormorani
Ombre e flutti avvolti e intrecciati come mani
Nel nucleo incessante dei pensieri umani
Abbiamo intravisto due fantasmi segnati dal dolore
Il morbo come Cristo sulle mani e sui piedi
Un occhio splendente al posto della croce
Abbracciavano quei delitti su barche annerite
“non c’è pace senza giustizia”

Giuseppe MARCHI

sabato 7 giugno 2008

KOSOVO IN GUERRA (dicembre 1999)

Spartitevi le colpe degli avi e le vostre
Pietà per il nero assassino ho chiesto
Aveva il corpo divorato dai vermi
E lo scalpo trascinato nella polvere.

Ho visto una guerra ed è stata mia
Miei i bambini senza voce
Mia la tristezza del vecchio davanti
Alle macerie che furono casa.

Mio il dolore della sposa bambina
E il suo calice di soda caustica da bere.

Deponete le armi dell’odio
Ho percorso i chilometri della vostra terra
Montagne innevate e boschi d’abete
Ho salito come fosse il mio Abruzzo
Per trovare una casa isolata
E le sue dodici tombe.

Non chiedevano vendetta per loro
Il vento le aveva già nettate
Del sangue degli uomini e del pianto
Delle donne sole.

Chissà chi di voi avrà speranza o futuro
Ho visto le immense solitudini
Lo sguardo della violenza e la voce dell’odio
Ho voluto guardare fino in fondo
La guerra e la sua rovina
Non ho trovato risposte né ragioni
Non c’erano e non ci saranno vincitori.

Giuseppe MARCHI

sabato 31 maggio 2008

Domani (2007)

Fissa un tempo che non esiste
L’immagine e le parole sono
La notte breve e il sogno
La strada segnata del ritorno.

Ascolta la casa e il silenzio
Non passa nelle porte aperte
Ristagna aspettando un sempre
L’ultima fila degli scaffali.

Guarda il tempo attraverso
Un ponte che non ho valicato
Profumi sulle siepi dipinte
Il fastidioso ronzio degli insetti
Sospingi l’attesa di ore
E finalmente l’amore
È il senso che dà la vittoria
Il domani esiste.

Giusappe MARCHI

lunedì 12 maggio 2008

Libere elezioni

Vincere, votare, partecipare
Che tentazione di fallimento
Sensazione di naufragio
Mi presto a questo silenzio
Elettorale.

Giuseppe MARCHI

martedì 29 aprile 2008

Viaggio

Speme del ritorno
Passo su passo
Scalo la vetta
Ma in fondo non mi fermo
Neppure per un sorriso

Giuseppe MARCHI

domenica 27 aprile 2008

Oceano e Mediterraneo

Sulla piazza di fronte al mare
Quando il Tejo diventa Oceano
Qualcuno mi dice che sembra Trieste.

Ma io sulle punte per non far rumore
Attraverso la strada per non smarrire
Questo ricordo che si muta in pensiero
Sussurra la notte col vento
Si porta la voce dei navigatori
Fosse una goccia di fresca acqua
O lacrima salata di fatica e sudore

Giuseppe MARCHI

venerdì 25 aprile 2008

Aprile a Lisboa

Litania lugubre fa la pioggia
Appena all’orizzonte il vascello
Che ci riporta vivo il re morto
Sulla terra umida e nera
Le orme fonde degli uomini
Lasciano tracce delebili.

Terra, un fuoco sulla terra
Prostrati alla prece
Re peccatore fatti devoto.

Un uomo solo aspetta
Domani vedrà il corpo del padre
Come Cristo trafitto dal bisturi.

Litania funebre questo vento
Che ci porta il sale sul viso
Brucia Lisbona ferita e mesta
Chissà se risorgerà città di fantasmi
E anima senza luce.

Giuseppe MARCHI

venerdì 18 aprile 2008

MEMORIE DALLA PENISOLA IBERICA

Non vi dirò chi sono né perché viaggio. Sappiate che però non c’è nessun segreto da scoprire per voi, dietro questa mia reticenza. E’ solo superfluo: ci sono mille motivi per partire ed intraprendere il viaggio. Quando invece tu dici “per lavoro” oppure “ in vacanza”, allora diventa un viaggio, proprio quel viaggio lì, che hai cominciato pieno di bagagli e finito portando con te qualche foto e souvenir. Quello che io vi racconto invece è il viaggio, senza nome e senza tempo. Infatti non vi rivelerò la data ne in cima ne in calce alla pagina. Vi dirò invece il come e il dove e questo, vi assicuro, sarà abbastanza. Lasciare la famiglia, per chi ha la fortuna di avercene una, è un piccolo sacrificio che il viaggio impone. Un fugace bacio all’aeroporto e qualche secondo di solitudine mentre lei svanisce sulla scala mobile. Poi qualche secondo ancora per rompere il ghiaccio coi nuovi compagni di viaggio. Perché una cosa è viaggiare soli, un’altra condividere il viaggio.
I voli di oggi, almeno quelli in Europa, non sono più liturgici come quelli di una volta. Ti sedevi nel tuo comodo sedile, ti coccolava la hostess, “a drink, please”, poi il tempo volava via mangiando il sobrio vassoio che emulava un pranzo. Ora niente. Due ore stretto tra gli altri passeggeri e se vuoi bere “How much?”. Così arriviamo a Madrid. E questo è il dove! L’hotel a 5 stelle nel quartiere commerciale di Salamanca è abbastanza spagnolo nel servizio, non so se mi spiego. Spero di non offendere nessuno, ma non siamo tutti un po’ mediterranei per caso.
Mi concedo il caldo confort di una doccia, prima di un giro per la città. I grandi viali intravisti dal bus, sembrano boulevard di Parigi. Il museo appena scorto di fretta in mezzo ai turisti, chiacchierando in modo ameno con lo sconosciuto compagno di viaggio.
Il grottesco di certe tele altera il sacro, quel fiammingo che voleva castigare i costumi ma è più licenzioso del suo intento e la sua fantasia macabra si inventa il più assurdo giardino delle delizie.
Poi il nero di ombre e mostri ci inghiotte, noi figli di Saturno. Resto deluso perché non c’è quella fucilazione che sembra una crocifissione. Ed è la seconda volta che vengo a Madrid e non riesco a vedere Guernica. “La guerra civile, del bene contro il male”. Che annunzia il disastro di tutti i disastri. Quella storia vera che mia madre mi ha raccontato, quando i bengala illuminavano la strada tra Roma e Cassino, e che per fortuna mia figlia non vedrà. La leggerà sui libri di Storia, la guerra, ma non sarà la stessa cosa. Sarà diversa da mia madre che l’ha vissuta e noi sentita raccontare. Magari i lager, i bombardamenti sulle città, i rastrellamenti, le sembrerà che siano stati impossibili in questa pacifica Europa. Dopo tutto, il mondo che le lasciamo è migliore, sarà anche migliore lei.
Amo il cibo spagnolo, paella, gaspacho, jambon iberico, tapas. Che elenco! Vi è venuta fame? Mi riporto qualche chilo di troppo dal viaggio! E un caldo sapore di flamenco, che mi riesce ad emozionare sempre. Il canto gitano, d’amore e sofferenza, che la Spagna ha saputo fare suo, che è di tutti noi, viaggiatori del mediterraneo, greci, fenici, punici e romani. Europei. La vera radice d’Europa è il sole che picchia sulle case bianche, sulle onde di questo mare, sulla pelle di uomini e donne che hanno viaggiato a portare la storia e la cultura per le pianure d’Europa.
Un ultimo ricordo che mi porto via da Madrid è un fatto accaduto a Porta del Sol. Ero impegnato in qualche passo, sotto la pioggia peraltro, per l’immancabile acquisto, ma d’incanto mi sono ritrovato a percorrere le strade di 15 anni prima, la foto alla statua dell’orso, l’incanto di entrare nell’asburgica Plaza Major. Come un deja vu’, ho ascoltato i miei passi sotto i porticati e bevuto un caffè in quel bar pieno di teste di toro e foto di corride.
Sono tornato a Lisbona dopo otto anni. Hanno di certo compiuto qualche passo in avanti verso l’Europa, non ancora il gran balzo della Spagna, che ha messo la freccia per il sorpasso.
Chissà quanto è costato loro questo piccolo cambiamento. Le case sono ancora scrostate, i tram tentennanti, sulle ardue salite. Non ci sono più gli ambigui cambiatori di escudo clandestini, ma qualche figuro che ti sussurra “ cannabis, cocaina” ancora lo trovi sul Barrio Alto.
Anche qui sono andato di ricordo in ricordo, ma il deja vù non mi inquieta più, non mi commuove, vuol dire che mi sono abituato e non mi sorprende più.
E’ tutto un gioco questo viaggio, ti porti con te come una maschera, un ruolo da attore. E allora giochiamo per i saliscendi di Lisbona, percorsi dal tram, e una torre battuta dalle onde del mare, ma è un inganno anche questo, una delle magie di questa città, perché si tratta di un fiume. Il largo estuario del Tago che va a morire nell’oceano, che s’apre qualche chilometro più in là.
E’ tutto qualche passo più in là, a Lisboa. “Triste lugubre pioggia, litanìa alla finestra” dice il poeta.
E sogna. La nebbia a Belem dirada e arriva una caravella, beccheggiando, ondeggiando. Tocca il molo e scompare. La vela è come un sudario e avvolge il poeta perché Lisbona è come la morte.
Così pressappoco la lascio, in una mattina di sole, alla conclusione del sogno. Alla fine del viaggio.
Giuseppe Marchi

domenica 30 marzo 2008

Lunga notte (20 settembre 1999)

Una totalità di stelle
Pesante fardello appeso
Alla solitudine del cielo scuro
Tra gli alberi e le loro ombre
Ho visto un uomo stanco
Accovacciato a terra
Nettarsi del fango con le mani
Si è alzato a guardare la notte
E sembrava immensa e lunga.

Giuseppe MARCHI

martedì 18 marzo 2008

RITORNO DAL KOSOVO (27 Agosto 1999)

Ho paura del tempo
Il vuoto interposto agli attimi
Il relativo silenzio interrotto
Dal brusio di fondo
Lontana reminescenza d’altri
Voci confuse e di notte
Bagliori di luminescenza
La nave salpata dal porto
Ha reciso qualcosa di invisibile
Ma rimane sugli avambracci
Chiusi all’aria fredda della sera
L’indelebile cicatrice delle ferite
Inferte dalla memoria.
Il ciclo delle nostre lune
ha inghiottito in un’eclissi
tutti i pensieri inespressi
le parole dette e ripetute
a noi stessi, tutto lo spazio
della lontananza.
Un’onda di chiara schiuma
Ha inabissato la vita un attimo
Prima poi domani sarà
Il sereno risveglio del ritorno.
Non avrò paura di rivederti
Del mio viso allo specchio
Del perduto tempo e di quello ritrovato
Dell’amore sopito abbandonato
In fondo allo sguardo
Nell’angolo segreto delle mani.
Domani ti abbraccerò di baci

Giuseppe MARCHI

sabato 8 marzo 2008

IL NOSTRO DESTINO (2 Agosto 1999)

Ballano le anime dei morti
Dinanzi a noi indiscreti visitatori
Caduti trucidati di questa guerra

Irta è la strada per la pace
Su queste fosse di fango
I monti incendiati vediamo
Immobile il corpo senza testa
Vacilla nelle acque tortuose

Non c’è più poesia
In quella morte
Della sua putrefazione
Immondo e gonfio
I suoi invisibili occhi
Guardano il nostro destino
Di uomini in guerra

Giuseppe MARCHI

venerdì 29 febbraio 2008

INCUBO (4 luglio 1999)

Il corpo soffre la febbre e la sete
Il sogno ti raggiunge da questa stanza
In solitudine piccola prigione.

Pago il fio della mia ricerca
Che ora appare sciocca e vana
E ne conosco il prezzo la lontananza.

Ho bisogno di te e della tua voce
Del tuo semplice coraggio
Ti amo e non potrò dirtelo stasera.

Spero nei fumi della febbre
Che da sogno si fa incubo
Di leggere la fatidica scritta “in rete”
Sul display del mio telefono cellulare
Ma il miracolo tecnologico non avviene
Il desiderio arde come la malattia
Perché vorrei stare con te.

Il tempo non corre, passeggia
Sul mio corpo e lo martorizza.

Ti amo però e lo sto scrivendo!
Sogno quando leggerai queste righe
Ed io le stesse delle lacrime sulle guance.

Giuseppe MARCHI

domenica 17 febbraio 2008

DA BAMBINO (Settembre 2000)

Da bambino ero affascinato da curiosi lampadari che ornavano i portici della piazza del mio quartiere. Roma è una città strana. Anzi esistono più città. La mia si chiamava e si chiama tuttora col nome di un santo piemontese. Don Bosco. I salesiani gestiscono l’oratorio, la scuola e la chiesa. Una chiesa costruita negli anni ‘50. L’architetto pensava a San Pietro ma vedeva l’EUR. Due braccia di portici come quelli del Brunelleschi ma non più ellittici, quadri. Come se il futuro rappresenti la quadratura della sfera. Per se stessa e per gli antichi perfetta. Per noi moderni troppo rotonda. Colonne a parallelepipedo. Finestre piccole e quadrate. Troppi occhi ciechi sull’abbandonato giardino di ghiaia. Una fontana neanche al centro, piena di carte e rifiuti. Sul bianco del granito una scritta nera. “ La nato non è un fiore”.
Non so dire se oggi quei lampioni ci siano ancora. Dalla finestra del primo piano che ospitava il coiffeur per signore dove si acconciava i capelli mia madre, guardavo l'asta lignea che reggeva una sorta di esaedro da cui scaturiva la luce. Avevo otto anni. Troppo piccolo per restare solo a casa, troppo grande per starmene lì buono a giocare, mentre le signore parlavano, parlavano. Dino era il parrucchiere. Mi piaceva, avrà avuto qualche anno meno di mia madre, giocava col nome, io per tutti ero Pino.
Adesso ha attraversato l’oceano e accompagna turisti a Santo Domingo.
Dal centro del mondo alla periferia dei nostri sogni.
Era così vicino che sembrava potessi toccarlo, solo fossi stato più grande. Qualche centimetro più alto. Era inutile protendere le braccia poiché risultavano sempre troppo corte per afferrare il lampadario.
E poi perché prenderlo? Forse per usarlo come uno strano trapezio da circo, per dondolarmi nell'aria del sottopotico.
Lo escludo, perché ho sempre sofferto delle altitudini ! Ancora adesso, i ponti guardando giù in basso, mi fanno star male. Ma un male atipico, che fa girare le budella, che da nausea, ma è controllabile, basta allontanarsi un poco dalla balaustra. E dà l'ebbrezza della sofferenza, della caducità.
Il sapore sconosciuto del suicidio. Parola magica e tabù. Chi ha saputo superare la barriera estrema dell'amor proprio. “Salvata da un pino" recitava il giornale della Sera. Mai viste conifere in periferia di Roma. Forse per il distratto giornalista di cronaca nera era meglio che la folle donna morisse e invece si ruppe solo le ossa principali, meschina! Trattenuta nel volo a cadere da un povero oleandro mezzo piegato. Eppure non erano bastati sei piani per mandare in frantumi quel corpo. Ma chi cura quell'anima fratturata ? Senza via di scampo...o scelta lucida. Non ho avuto possibilità di chiedergli la cosa più importante, la domanda che il frettoloso giornalista botanico non si è posta: dove stavi andando, volando o cadendo signora cinquantenne di un condominio popolare del mio quartiere-città?
Noi, che stiamo dall'altra parte a guardare attoniti, non sappiamo nemmeno immaginare il vuoto dentro e fuori. In ogni posto del mondo, c'è la morte. Lo so da quando ero bambino e gioivo silenzioso e incauto dietro qualche funerale di parenti. Poi l'uomo è maturato e quel cinismo innocente è diventato angoscia, tutte le volte ed ogni volta ancora. Quando la morte è passata, non so se soddisfatta del suo lavoro, ingrato. Chi prima e chi dopo. E noi ad insultare l'intelligenza e la vita stessa, col pianto. Ovunque ho visto la morte. Quegli occhi neri come buchi vuoti sfiorarmi o prendermi decisamente la mano senza vedermi.
Una stretta rapida e calda. E poi mi è rimasto il tiepido ricordo dell'inesistente. E noi ciechi a non vedere la vita, perché è questa la vertigine invisibile, l'unica giustificazione alla morte. La vita stessa che è necessaria, tanto veloce da non sentirne i passi, come un viaggio da solo, senza o con ritorno.
Adesso sto seduto su un treno e si fa notte. Non sono più bambino. Seguo ancora un attimo i fili paralleli dell'elettricità e il leggero nistagmo rappresenta un paesaggio sfocato, che non può appartenermi, visto nella velocità.
Il silenzio si impadronisce dei miei sensi, in mezzo a tanta gente. Qualcuno dorme e aspetta di arrivare , quell’altro per fretta parla di niente allo sconosciuto al suo fianco.
Solo un brusio di fondo del respiro, un mondo intero dalle dimensioni impossibili. Questo tacere è il preludio al suono magico della preveggenza. Così si allontana la vertigine di certi ricordi imbarazzanti, di certi cedimenti alla sconfitta. Non alla morte sorella, perché pur essendo ottimista, ammetto di essermi alla fine arreso alla vita.
Da bambino non ce l'ho fatta ad arrampicarmi a quel lampadario e volare. Sono rimasto coi piedi nelle scarpe, davanti al davanzale. La finestra socchiusa e lontano il via-vai delle strade della metropoli. La capitale del mondo. Così lontana eppure raggiungibile un tiepido giorno di maggio , prendendo un treno come questo. Siccome c'era troppo da sognare, da scrivere e da vivere.
Giuseppe Marchi

lunedì 11 febbraio 2008

DIARIO DAL KOSOVO II 30 Giugno 1999

Alla finestra dell’Albania
Stanno milioni di bambini piccoli e sporchi
A salutare i cingolati dei vincitori
Come nei ricordi dei padri e delle madri
Come in certi vecchi e nuovi films
Le manine alzate le vocine acute
Gridate con una rabbia non fanciullesca
“italiani, ciocolata”
un po’ come gli americani mi sento
cinquant’anni dopo le stesse case bruciate
le stesse donne ai bordi delle strade
delle vie di sabbia e sassi
i negozi devastati i tetti sfondati.

Il dopoguerra coi carretti appena in piedi
A portare qualche frutto qualche verdura
Ma i visi della gente inspiegabilmente felici
Docile semplice apparenza
Nei dopoguerra!

Giuseppe MARCHI

sabato 26 gennaio 2008

Povera Italia

Povera Italia l'ha già detto qualcuno
sempre col fiato corto
a salir la salita
che è china di sassi
e spezza la schiena
povera Italia, diceva mio padre
quand'ero bambino mi insegnava
dello stato l'amore e del soldato l'onore
l'orgoglio di servire la nazione
adesso sembra passato remoto
povera italia non so più dire
a mia figlia del futuro molesto
che ci aspetta non domani
ma tra qualche minuto.

Povera Italia a inseguire la storia
robot e aerei invisibili ci hanno promesso
miracolosi laser a guarire ogni male
non resta che una nera voragine
delle nostre paure degli altri.

Povera Italia di quelli che brindano
invece di disperarsi e sporcano del patriota
Mameli l'inno col saluto romano
poichè una cosa è certa
vedo il sole correre tra nubi sottili
ma, signori, è notte
notte fonda.


Giuseppe Marchi

giovedì 24 gennaio 2008

Diario dal Kosovo (28 giugno 1999)

La terra che scorre sotto le ruote
E il tempo che mi trascina
Corpo morto passivo verso lontano
Quest’anima senza più anima.

Ho pensato tutto il giorno a te
Insistentemente raccogliendo come fiori
I ricordi con una sola certezza
Sono inesauribili vie da percorrere.

Ho sognato una grande nave grigia
Uno di quei battelli da guerra
Col portellone carico di soldati
E mezzi e armi e vicina invisibile
La costa d’Albania da raggiungere.

Così è stato.
Venti ore lasciate passare
Sul mare placido e benevolo
Una crociera noi scherzavamo
Prima della tempesta annunciata.

Giuseppe MARCHI

sabato 12 gennaio 2008

Racconto (1999)

Vi racconterò forse
Della pista di terra
tonda come anfiteatro
delle tiepide gocce di sudore
della paura dietro i giorni
del non ritorno
della guerra vi racconterò

Vi parlerò forse
Del vuoto dentro l’anima
Il silenzio dietro le parole
Vuote di carne straziata e sangue
Degli uomini scheletri
E della loro guerra vi parlerò

Forse starò da parte zitto
Senza ricordo alcuno


Giuseppe MARCHI

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