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domenica 30 dicembre 2007

La porta (1995)

Odo l’acre miasma
Della pianura nera
Che m’ avvolge e nasconde
Di certo i passi dell’andare
Lento e faticoso e in gola
Al ponte oltre la ferrovia

Danzando in silenzio
Un corteo di fantasmi
Mi ha preso per mano
Spettri di giorni incendiati
Nel caos del niente
Urlanti del dolore perduto
Senza rotta la vela
Strappata dalla tempesta

Così ho raggiunto la casa
Ed ho chiuso bene la porta

Giuseppe MARCHI

domenica 16 dicembre 2007

Milleottocentonovantanove

Quando mio nonno morì ero in vacanza al mare e non potei tornare per il suo funerale. I parenti pensarono che fossi il solito menefreghista, giovane scapestrato e ribelle, ma io ne fui veramente rammaricato, perchè perdevo una persona che amavo. In silenzio, da lontano, ci dividevano cento anni di storia.
So che era nato nel ’99, nel mese di novembre, in un tempo di un’Italia post-risorgimentale, preindustriale e contadina, a Prossedi, paesotto arroccato della Ciociaria. Non lontano da Roma, dove si finiva per migrare se le cose andavano male. Ma ad Arcangelo, questo il nome che gli avevano imposto, a lui andarono subito benissimo perchè il padre aveva la terra da lavorare e le pecore da pascolare, e quindi il pane per i figli lo portava e un pezzo di sigaro da fumarsi tranquillo la sera ci scappava sempre. Quando la stagione era buona e il clima dolce pigliava il ragazzo la chitarra e se ne andava per le vie cogli amici a stornellare, si faceva dare dal padre un capretto e c’era da mangiare e bere per tutti. Poi scoppiò la guerra, una guerra lontana fatta per terre che non se ne conosceva neanche l’esistenza, gli diedero un fucile, aveva diciassette anni. Nella trincea si stava col fango alle ginocchia, e gli scarponi erano di cartone, a turno si spulciavano le maglie di lana dai parassiti, però si stava vivi e si scriveva a casa, che era tanto lontana. Quando si andava in avanti, Arcangelo caricava il moschetto e girava la testa all’indietro mentre sparava verso il niente. La paura spingeva lui e i commilitoni più avanti. Poi furono a Caporetto e ancora adesso per antonomasia è una disfatta; ma erano i ragazzi del novantanove e così alla fine la vinsero la Grande Guerra! Di quell’eroismo si ricordarono nel ’73 quando lo fecero cavaliere con la medaglia, la croce ed il resto. Tornato dal fronte ebbe pure il tempo di andare a ventun’anni a fare il servizio militare e lo spedirono in Sardegna. Di quel tempo rimane una stropicciata cartolina illustrata spedita alla fidanzata Lisetta, mia nonna. Durante la leva si beccò la pleurite e svernò nell’ospedale militare di Cagliari. Certe volte si rivolgeva a mia madre con delle parole in sardo, che nessuno capiva, e allora mia nonna diceva “ Chi c’ha la lengua, va in sardegna”. Secondo me, ‘sto proverbio se l’ era inventato lei di sana pianta, così per ridere, intendendo che chi sa parlare va lontano, financo in Sardegna, o giù di lì. Non sono riuscito mai a farmelo spiegare bene, quel detto.
Quand’ero bambino , si sedeva silenzioso al tavolo ed io mi facevo, senza dir niente , quasi di soppiatto, vicino perchè temevo di dare fastidio; mio nonno faceva i solitari con le carte ed io stavo a guardare affascinato per imparare. E ancora adesso quando , nei rari momenti di tedio, mi ritrovo tra le dita un mazzo di carte e butto sul tavolino le fila di figure, penso a lui che in silenzio con gesti ponderati, me li ha insegnati.
Tornato dalla leva s’era sposato mia nonna Luisa, e adesso c’era lei a tenergli compagnia nelle corti notti estive davanti all’ovile. Se ne stava a poltrire sotto l’albero, mentre il gregge pascolava, in quel posto che chiamavano tre moschetti, e la vedeva salire col cesto in testa e si gustava la bella figurina che s’inerpicava fino a lì per portargli la cena, la più bella del paese, ed era sua moglie adesso. Quando calava la sera, chiudeva le bestie e si mangiavano assieme un boccone, poi via a far l’amore nella stalletta, in mezzo al fieno. Stavano abbracciati nel buio, a lungo, cullati dal suono delle cicale e dal vento che muoveva le foglie degli alberi, liberi e felici, di quella libertà che si gusta in segreto, che non va raccontata ma è preziosa e che nessuno avrebbe più potuto toglier loro. Neanche la più feroce e stolta dittatura, che marciava allora su Roma ma che non lambiva neppure quel loro mondo. Anzi gli portò il progresso della luce elettrica, di qualche macchina di passaggio e della bonifica delle paludi. Ma la vera faccia della medaglia si sarebbe vista più tardi, con la guerra.
Lisetta era rimasta incinta quasi subito e non saliva più ai tre moschetti, ma rimaneva giù in famiglia e il marito scendeva di rado per salutarla, lei col bambino che cresceva nel grembo. Ma nel paese cominciò a girar voce che il fratello di Luisetta era manesco, la trattava male e forse la picchiava. Era sordomuto, era sempre stato un po’ lo strano del villaggio, e quindi la voce si ingigantì, la moglie di Arcangelo le prendeva senza ragione dal fratello ed era pure gravida. La faccenda non tardò a raggiungere le orecchie ben aperte di mio nonno che una brutta mattina scese al paese e andò all’orto del cognato per capire come stavano le cose, prima gli parlò con le buone, ma lui rispondeva a gesti, con quei suoni strani che non vogliono dir niente, poi urlava e anche l’altro faceva lo stesso e alzava le mani al cielo come un ossesso, si guardarono in cagnesco e lui vide uno sguardo beffardo nel fondo di quegli occhi senza colore in quel rumore che copriva il silenzio della parola. E lo colpì con una vanga che trovò lì vicino, lo colpì più volte, non credo per ucciderlo ma io tendo sempre ad assolverlo, perchè gli volevo bene. Il giudice del tribunale di Latina la pensava diversamente e lo condannarono a sette anni per tentato omicidio. Come corollario dovette vendere le cento pecore per pagare un avvocato che non seppe difenderlo. La povera Lisetta si trovò travolta da un evento più grande di lei, da una parte il marito in galera dall’altra la sua famiglia che gli diceva di non testimoniare delle violenze subite dal fratello perchè altrimenti l’avrebbero internato come fosse matto. E non testimoniò. Tutte le mattine alle quattro colla cesta in testa andava al carcere di Ceccano a portare conforto al marito che stava lì rinchiuso e non capiva bene perchè, lui aveva solo difeso sua moglie e il suo bambino.
Una mattina che era ancora buio, da dietro un albero si fece contro un brigante colla doppietta : “Dove te ne vai tutta sola di notte, bella fe” gli disse beffardamente. La bella Lisetta avvolta nel fazzoletto nero, sembrava ancora più piccola della sua età. Ma era forte ormai come una roccia: “Vada trovare lo marito mio, che sta a Ceccano”. Il bandito trasalì, conosceva bene quel posto, la galera, si lasciò scappare un sorriso sotto la barba sporca, e le disse “ Viene, signò, ti accompagno io fino laggiù, che a quest’ora del giorno c’è stà piricolo”. E sembrerà strano , ma il feroce bandito della Ciociaria, col suo schioppo e la sua carriera di rapine, si guadagnò la nostra gratitudine di posteri perché fu di aiuto a mia nonna quel giorno del millenovecentoventisette.

Giuseppe Marchi

lunedì 3 dicembre 2007

VITA (1995)

Dio o de io,
ovunque la vita mi porti
dubbi o certezze di pioggia
amo e d’amor vivo
divoratore di sogni
ancora un minuto
di libertà

Giuseppe Marchi

venerdì 30 novembre 2007

UOMINI (1994)

Ho perduto un piede
Ed una mano cadendo
Dalle rovine dell’incertezza
Adesso così storpio valico
La linea d’ombra
Nasco di nuovo, o Padre
Partorito dal tuo dolore
Oltre il confine
Che ci fa uomini

Giuseppe MARCHI

giovedì 15 novembre 2007

A SIENA 1995

Or voglio, ma l’anima ne freme dolcemente
Rammentarci di un pomeriggio presto
Prima ancora che l’estate sia il sole del Palio
Che salimmo in cima alla città e di quel giorno
Noi due ne siamo segreti testimoni.

Il Duomo, i tetti rossi e il Mangia
Oscillavano al vento insieme ai tuoi capelli
E lo sguardo non si stancava di viaggiare.

C’era il silenzio immaginario delle case
Viste di lontano e potei ascoltare almeno allora
Le parole non dette dalle tue labbra.

Or voglio ricordarmi, amica mia,
con l’anima rapita da un oceano chiuso
sporti da quell’angusto merlo di tre metri
in cima a Siena e in mezzo al cielo intero
ci siam sentiti liberi davvero.

Giuseppe MARCHI
“Raccolta Ansol 2000- Milano”

venerdì 9 novembre 2007

ACCADE (1995)

Accade di remare il vento
Come se fastidiosi punti di luce ovattassero
Quello che resta della città
Il centro della notte scorre via
Appagato di leggera brezza della vita.

Accade di calpestare le orme
del deja vù come librato volo
di noi sopra le cose tangibili
quello che resta della memoria.

Rigurgitato fuori dal buio prepotenza
Dei ricordi e dei sogni sul presente
L’invisibile ricerca in fondo alle mani
Quel che resta dell’impossibile amore

Giuseppe MARCHI
“già pubblicata su Raccolta Ansol 2000- Milano”

giovedì 1 novembre 2007

MILANO (1995)

Il vero viaggio è quello senza ritorno
Lungo la strada disegnata dalle stelle
Incendiare i giorni della memoria
I muri dipinti dai sogni nostri
Milano è una ragnatela
Di fili d’acciaio
Il tram si inerpica nel dedalo
Dei palazzi nuovi.

Una notte portata via dal Naviglio
Ho visto il cuore immenso della città
Accesa di mille luci fluorescenti
Pulsava nascosto lontano dagli occhi
Indiscreti dei sentimenti.

Una vera città del futuro.

Sono stato felice un sospiro
Di attimo dimenticato
Il necessario ritorno
Alla fine d’ogni gesto.

Giuseppe MARCHI
“già pubblicata su Raccolta Ansol 2000- Milano”

lunedì 22 ottobre 2007

ENIGMA (1989)

L’enigma è come facciano
A nuotare le stelle:
ma poi le domande
finiscono per rispondere
e le stelle mi accontento
di guardarle
senza capire.

Giuseppe MARCHI
(già pubblicata su Differenze. Cultura Duemila Editrice 1992)

mercoledì 17 ottobre 2007

Ogni volta (1989)

Caparbia la china
Di passi e struggenti
Come foglie raccolte
Momenti.
Uno cerca la via
E la smarrisce ogni volta


Giuseppe Marchi

venerdì 12 ottobre 2007

AUTORITRATTO (1989)

Sono disperato
Di quella tristezza
Inutile che prende
La sera.
Sono uno sconfitto
Felice dei desideri.

Giuseppe MARCHI
(già pubblicata su Differenze. Cultura Duemila Editrice 1992)

giovedì 20 settembre 2007

MONOLOGO 14.8.07

La morte sta alla vita come la pornografia sta all’amore.
Bastasse dire off.
Evitando le lacrime di quelli che restano.
Perdere lo struggente ricordo e il senso di abbandono.
Ma ricominciare a camminare e a vivere
Perchè la morte non è mai esistita.
Anestesia del silenzio.
Bastasse dire on.
Ma la vita è solo miracolo.
Il piacere può essere ricercato o evitato.
Solo la vita c’è quando s’accende al giorno.
Col suo respiro affannoso.
Con la paura della notte.
Il nostro sguardo perduto nel labirinto
Giorni e città.
Non ho paura più.
La coscienza di padre e di uomo
è sopra la morte e il dolore
è seconda solo alla sorgente
meravigliosa che disseta la vita
e la fa splendere.
Quella mattina di sole e inverno.
Quando è bastato dire amore.
Chissà se ce ne ricordiamo più.
La libertà è nei tuoi occhi
Le mie mani piene di denaro
Non valgono un minuto
Davanti al mare.
A riposarci del troppo ridere
Del lungo e periglioso viaggio.
Mangio sapendo di farlo
Bevo il nettare del vino
Mi fumo un avana
Ricordando un posto
Remoto del cuore
Assaporando la speme
Del ritorno
Perché c’è sempre quel momento
In cui la strada curva
Tu guardi il cielo
E non è più lo stesso
Nubi umide hanno coperto il sole
Il vento ha infranto il vetro
E ci siamo rifugiati dentro un bar
A guardare la tempesta lasciare
Il posto di nuovo al sereno.
Così sarà alla fine.
Perché vivere è confondere
Il ricordo col sogno
Ma conoscere benissimo
Il proprio destino.
Che non è parlare
Ma pensare.

Giuseppe Marchi

giovedì 13 settembre 2007

DIFFERENZE 1989

L’uomo muore.
E’ un pezzo di biologia
imperfetta.
L’uomo vive.
E’ un volo d’anima
Sopra i pensieri.

Giuseppe Marchi
(già pubblicato su Differenze. Cultura Duemila Editrice 1992)

giovedì 6 settembre 2007

IL VOLO LIBERO 1985

E’ un dilemma come altri.
La nostra esistenza
è una pozza d’acqua gelata.
Quanti fiumi il vento ha valicato d’un passo
e quanti crocevia di scelte abbiamo affrontato
da soli.
La vita è una città senza sole,
dalle strade smisurate
che non puoi vedere mai l’orizzonte.
Eppure il gioco, questa pietà che sgorga labile
è sempre la stessa ogni sera.
Allora per non morire
mi inventerò un giorno infinito
uno di quegl’attimi
che gli artisti dipingono nel cielo
solamente.
uno di quei voli liberi
che traccia il tuo fiore
quando cade su me.

Giuseppe Marchi
(già pubblicata su Antologia Pometina Vol.II E. Pomezia-Notizie 1986)

sabato 25 agosto 2007

ACQUE D’ABRUZZO (1983)

Ginestre fiorite lungo la strada
sfumano nella velocità del tempo,
un bagliore opaco
sul profilo bruno delle montagne.

Come il mistero del vento
che canta tra i boschi
d’oleandri la sua nota d’argento.

E ti chini a sfiorare l’acqua
fresca di torrente, per fermarla.
Così come l’attimo evanescente
di posseder cogli occhi queste terre.

E nel sole già basso ai vetusti tetti
ti prende quella malinconia
che s’accompagna ai ricordi
e alle cose perdute.

Nel cielo terso vedo già l’infinito.

Giuseppe Marchi
(già pubblicata su Antologia Pometina Vol.I E. Pomezia-Notizie 1985)

sabato 18 agosto 2007

NUVOLE (1983)

Le nuvole : matasse sinuose
che affogano lente nel loro mare.
Infinite. E gioiosamente bianche:
s’intersecano
in una lotta pacifica
per colmare forme vive , umane.

Disegni che restano incielati.
Come i sogni,
silenziose si specchiano nel mondo,
e poi vanno a scomparire
nel rosso dell’orizzonte più lontano.

Le nuvole: arcani movimenti
che svelano ricordi,
meravigliose. Silenziose amiche del vento:
s’addensano
nello spazio indefinito,
nell’azzurro opaco
di questo spicchio di cielo.

Corrono
mosse dal vento
come schiuma di mare in tempesta.

Ed io sono
Quel leggero vascello
Che le cavalca,
e scivola via per terre lontane.

Giuseppe Marchi
(pubblicata su Italialettere Anno II n.6 Giugno 1984)

martedì 17 luglio 2007

Incubo

(DIARIO -Millenovecentoottantuno)

Le sirene nel buio del giorno
Più lungo
Il calendario recita 2 agosto
Quelle dieci e venticinque
Spietato il silenzio cala
Sulle urla i lamenti il pianto
La vita spenta
Ho la gola chiusa
Il calpestio frenetico dei pompieri
Tortura i miei timpani
Il fischio di treni lontani
Sanno di mistero di angoscia
Ma sale la consapevolezza
Quelle orride immagini di dolore
Di morte non sono un sogno
Terrificante quanto questa realtà

G. Marchi

2 Agosto

(DIARIO -Millenovecentoottantuno)
Una mano
Cerca ancora
Sotto le macerie di calce
La vita

Ma è solo follia

Intorno la morte
Un deserto
Di mura sgretolate
Nell’eco fredda del boato
Il rumore del treno
Che non può più partire
La folla impaziente
Che è stanca di aspettare
Il fumo denso acre
Che resite ancora
Nulla sa di umano
Nulla lo è realmente

Nemmeno il corpo straziato
Il braccio teso senza orgoglio
Gli occhiali infranti
Abbandonati sul selciato
Una borsa gettata lontano
Dalla furia incontrollata
Di lui non saprò mai nulla
Se ricco o povero, migrante
Medico o avvocato
Ma non importa adesso
So che era un uomo e l’hanno ucciso
Oggi due agosto alla stazione
Di Bologna
E mi basta per piangere
Almeno vent’anni.
Un ricordo senza valore


G. Marchi

sabato 23 giugno 2007

E bere

(Roma 1981)

E bere in un bicchiere
Calice di puro cristallo
D’azzurro lontano
Nettare rosa dolce
Profumo d’arcano
Di favola antica o di mito.
E camminare per la strada
E guardare nel rosso del cielo
L’azzurro e poi il rosa
In matasse in germogli
Che in una lotta pacifica
Si fondono al verde
Di foglie vive di linfa umane
Si intersecano in venature scoscese
A rami rossi di pesco
In mille pensieri

G. Marchi

Homo

(1978)

Uomo? o solo piccolo atomo sperduto nella dannazione?
Uomo? o solo particella mobile nel firmamento?
Uomo? o solo l’essere imperfetto distruttore dell’universo?
Uomo? o animale immondo sporco di sangue e di merda?
Uomo! Perché non sai rispondere?

G. Marchi

Apocalisse

(1979)

Si spense sul monte
L’oro del sole
L’acqua divenne sangue
La paura morte
Ed io solo affamato deriso
Sono qui a contemplare
Le rovine del tempo
Senza più forze per ricominciare

G. Marchi

Utopia

(DIARIO -Millenovecentoottantuno)

Solo.
Il gocciolare costante del rubinetto
Il battere frenetico del cuore
Impazzito.
Ma è solo utopia
E’ la paura della realtà
La consapevolezza
Della fugacità del sogno.

G. Marchi

giovedì 7 giugno 2007

Terra


(DIARIO -Millenovecentoottantuno)


Il sole scende
Su un filo dorato
E si perde senza forza
Fra le montagne
Dai lampi di ghiaccio
Diamanti grezzi
Nella roccia antica
Su questa terra cade il sudore
Fatica umana e sangue
Gettato sulla vigna avara
Terra di sabbia
Che dà pochi frutti
Amari di miserie
Che mi appartiene
Con il suo odore
Acre di stalle
Con il pianto asciutto
Della madre che veglia
Per sempre
Il vecchio sta seduto
Ad appassire
Racconta inascoltato
Il racconto incomprensibile
D’amore e guerra
Lo inghiotte il tramonto
D’una sera ambigua d’agonia
Canzone antica
Come goccia sulla rena
La vanga spinta col piede
Prima di un istante
Di riposo eterno.

G. Marchi

Tramonto

(DIARIO -Millenovecentoottantuno)

Sono due righe d’orizzonte
Quattro schegge di sasso
A forma di casa
Legno ed ossa antiche
Ma parlano ancora
Una lingua diversa

Misteri e radici
Sono tra mura spallate
Sotto al sole d’agosto
Fra i fili d’erba alti
Mai calpestati
Il muschio si mangia
Il selciato.

Odo una parola atavica
Immensa saggia
Pianto senza lacrime
Assorto in pensieri
Lascio che la sera scenda
Su questi monti
Oscuri d’appennino.

G. Marchi

mercoledì 30 maggio 2007

Ancora

(DIARIO -Millenovecentoottantuno)

Per un attimo
Abbandono la penna
Alzo gli occhi
Una crepa nel muro
O nell’anima
Mi scopro a meditare
La mano tra i capelli folti
Un tic nervoso
Gli occhi di sangue
Il capo pesante
Mi sfugge la penna
L’afferro con rabbia
Mi chiedo se è utile
Scrivere ancora


G. Marchi

Sensi

(DIARIO -Millenovecentoottantuno)

Perdere il controllo
In un mondo di sensi
Unico scopo meta prefissa
Di un cammino alienato
Rigetto volgare
Di un’insofferenza comune
Alle note tristi
Di un vecchio beat
La penna scorre su un mare d’olio
Di pece la strada più che strana
Ambiguo scontro
Tra gioia e dolore.

G. Marchi

giovedì 24 maggio 2007

Paesaggio

(DIARIO -Millenovecentoottantuno)

Un filo uniforme indefinito
Un velo di neve
Ma è solo apparenza
La brina che a stento
Ricopre l’erba del prato
Quel sole pallido
Si specchia su una pozza gelata
Quel cielo bianco carico
Che sa di una mistica
Fine del mondo
I muri rosa anneriti
Squallido mondo che soffoca
Ma c’è pure la gioia
Di un unico fiocco
Perduto nel vuoto
Portato dal vento
Un vuoto che senti
Insieme al canto
Di quel volo
Sembra un giorno diverso
Setacciato dalla monotonia
Del vetro appannato
Ma non sai se il respiro
È il sogno di un anno
T’accorgi che sotto il velo
Nasconde la solita terra
La vita più nera di sempre
Anche se ricomincia
A nevicare.


G. Marchi

giovedì 17 maggio 2007

Solo

(DIARIO -Millenovecentoottantuno)

Uno sprazzo di luce
Ma è solo follia
O quella stella cadente
Di una notte d’estate
Che ricordi
Sera di gennaio
Senza più luna.


G. Marchi

venerdì 11 maggio 2007

Un giorno o un anno

(DIARIO -Millenovecentoottantuno)
Il cielo
Nero
Striato di fuoco sul selciato
Un passo frettoloso
Ma la gente è tutta qui
In un fazzoletto di terra
In uno spaventoso ricordo
E sembra gioia
La sua risata
Nel buio profondo
Ma è la paura
Di un giorno
O di un anno
In una pozza
Di fango
Annega il tempo
Le stelle compaiono
E la strana città
Dell’ultimo dell’anno
Va via in una notte oscura

Sembra il pianto
Di un bambino
Che non sa decidere
Fra dolore e felicità
Ma l’indecisione
Lo tradisce
Nel fondo di un altro
Silenzio
E tu speri stanotte
Folle nel profondo
Di morte
Trovare una luce
Per vedere ancora
Attraverso i vetri
Il cielo di lampi
Si spegne


G. Marchi

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